Come (soprav-)vivere a Barcellona: un racconto in Medias Res

Perché a me le storie piace leggerle e raccontarle in questo modo. Chi mi conosce lo sa. “Ah comunque no.”  Così. Di punto in bianco. È che ho i canali delle sinapsi intasati da mille idee e progetti e parole e pensieri. E quando arriva la risposta, arriva.

Flavia lo sa, ho avuto il coraggio di raccontarglielo un po’ di tempo fa, che quella notte in macchina, da sola, a distanza di 4 ore la mia bocca ha sputato il suo bench. Niente di subliminale o erotico distorto. Semplicemente la risposta al suo “Oh, com’è che si dice ‘panchina’ in inglese?”

Come arrivare in Catalogna? Panchina!

Mi dispiace deludere le vostre aspettative, ma non vi spiegherò perché sono arrivata qui in Catalunya, Catalogna, Cataloña, ocomecavolosiscriva [piccola pausa: ormai sono grande e cerco di utilizzare un linguaggio forbito, ma non scurrile. Anche se non potrò fare a meno di scrivere tette, culo, e similari parti del corpo ogni tanto, n.d.a.]. No. Non vi dirò neanche quando, almeno per il momento.

Ma vi svelerò come si vive [e si sopravvive] a Barcellona.

Come vive un’Italiana a Barcellona?

In realtà, ancora non è che l’abbia capito bene bene. Da quando sono qui non faccio altro che pensare alle panelle, alla frutta martorana, allo sfincione, alle zucchine ripiene, a come tradurrò tutto ciò nella versione spagnola di questo post…

Insomma, si sopravvive. Soprattutto per una Siciliana come me che parla con la mamma e frigna, guarda le foto con gli amici e frigna, cucina la pasta al forno e frigna, guarda il video del bambino che si emoziona ascoltando la mamma e frigna. Una sindrome premestruale perenne. Una nindrome. [Questa la capiranno in pochi…]

Ma vi assicuro, stando a casa con un Gallego, non c’è molto da ridere.

Ne avete mai conosciuto uno?

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